Julio Monteiro Martins: Lo Spleen rivisitato

– La nuova musica, malinconica e nostalgica, di Arvo Pärt, Zbigniew Preisner, Ludovico Einaudi, Vic Chessnut e Matt Elliot –

Chi ama la creazione artistica e conosce il suo potere non può non emozionarsi quando osserva la comparsa sulla scena di opere veramente originali, soprattutto quelle che devono la sua originalità alla loro capacità di catturare l’essenza della loro epoca. Attraverso delle splendide intuizioni non di rado queste opere anticipano addirittura lo svelamento dello spirito profondo dei tempi.

La musica in Occidente – quella classica nel Settecento e nell’Ottocento, e quella popolare, il jazz, la musica strumentale ed elettronica nel Ventesimo e nel Ventunesimo secolo – ha spesso avuto, prima delle altre arti, una  “sintonia fine” per quanto riguarda le trasformazioni dell’umore collettivo; e la sensibilità premonitoria non è venuta meno negli anni più recenti, a partire dalle guerre balcaniche e dalle paranoie terroristiche – l’industria della paura che aiuta a blindare le forme pervertite del potere– strumentalizzate a partire dal crollo delle due torri e dalle successive lunghe guerre nei deserti orientali.

Al di là dell’apparenza del benessere materiale, promossa dalla propaganda mediatica, e dell’isterica allegria rifilataci dalla pubblicità e dall’industria dell’intrattenimento, ci sono stati dei musicisti molto bravi che hanno saputo identificare la cupezza inappellabile del nostro tempo e di trasmetterla interamente nelle loro composizioni. L’ethos malinconico e nostalgico della loro musica, il senso di catastrofe e di disfatta che trasmettono, così vicini allo spleen ottocentesco, ci permettono di parlare oggi di neo-spleen o di spleen rivisitato. Sono incursioni nel lato più ombroso della storia, dove il sole e i suoi raggi non penetrano. Ciascuna un lungo adagio, fatto di note che provengono da una disperazione silenziosa, da un rumore bianco, rappresentativo della vera identità segreta dell’uomo e della donna contemporanea, più ancora dello stordimento delle discoteche o delle commedie natalizie.

Anche se magari riescono a mascherare e a rendere invisibile il pervadente senso del tragico, i media non riusciranno mai a cancellarlo del tutto, perché farlo sarebbe cancellare l’umanità stessa, amputarla della sua dimensione triste e riflessiva, della tristezza universale che la rende “umana, troppo umana”. Gli “intrattenimenti” pre-cotti vorrebbero anestetizzare giorno e notte questo dolore diffuso, ma il dolore non scompare e anzi si ripresenta nella sua lugubre potenza per riconciliare l’uomo con la sua natura.

A volte, in queste composizioni, la malinconia è interrotta dal soprassalto, dal batticuore del pericolo incombente, per poi tornare al suo flusso uggioso e lento. Si tratta della trasposizione artistica delle emozioni prevalenti in tante vite oggigiorno, il cui contrasto con la maschera nevrotica della gioia fasulla non fa altro che esasperare ancor di più lo smarrimento, il lutto per il senso frantumato del mondo.

Due compositori contemporanei di stile erudito sono stati forse i primi a riproporre la malinconia: Arvo Pärt e Zbigniew Preisner. Pärt, estone, dopo aver studiato il barocco e il canto gregoriano, ha cominciato a comporre opere sinfoniche e musica di camera o per coro e orchestra dentro di quello che lui stesso ha denominato “minimalismo sacro”. Esempi compiuti della sua arte sono l’opera pianistica Für Alina e il suo Lamentate per pianoforte e orchestra. Preisner, anche lui originario di un paese dell’Est Europa, la Polonia, ha delle radici musicali molto diverse di quelle di Pärt. Si è confrontato con il cinema, autore di importanti colonne sonore delle produzioni europee degli anni Ottanta in poi, come il lavoro commovente che ha fatto per la trilogia Bleu, Blanc, Rouge del regista Krzysztof Kieślowski, principalmente l’album Rouge/Red, con i suoi dolcissimi e strazianti soli vocali. Per il suo amico e maestro Kieślowski, in seguito alla sua morte, Preisner ha composto Requiem For My Friend, probabilmente il più bel requiem degli ultimi cinquant’anni.

Già a partire dagli anni Settanta e da una delle tante metamorfosi del jazz, sono tornati i concerti di piano, con le improvvisazioni magnifiche di Keith Jarrett come nell’album The Köln Concert che segnò una generazione, seguito da un sensibile improvvisatore nello stesso stile che è Brad Mehldau. Negli anni più recenti è emerso il grande talento dell’italiano Ludovico Einaudi, che nelle sue composizioni per solo pianoforte, come quelle presenti negli album I giorni, Divenire o Diario Mali, ha in qualche modo “europeizzato” l’invenzione jarrettiana, sostituendo i crescendo dell’estasi del jazzista statunitense con adagi malinconici, che a volte somigliano alle note sparse di un carillon per bambini tristi.

Dal punk e dal rock invece sono venuti tre compositori che, trasformandosi radicalmente, hanno adottato lo spleen come atmosfera prevalente nei loro album: James Blackshaw, e i suoi The Cloud of Unknowing e Lithany of Echoes, un continuum di struggenti soli di chitarra acustica; Vic Chessnut,  nato nel ’64 e morto suicida nel 2009 – nel 1983, mentre guidava sotto effetto di alcool perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo quindi su una sedia a rotelle per il resto della sua vita – che si è rifiutato di portare avanti l’oppressione di un’esistenza in immobilità. Dotato di una forte scrittura poetica, Chessnut ci ha lasciato alcuni album impregnati di emozioni profonde, più di tutti il suo At The Cut, uscito postumo, che si conclude con un appello disperato alla nonna che lo aveva cresciuto, Granny, chiaro preannuncio del suo suicidio.

Ma tra i compositori contemporanei nessuno raggiunge il livello del sentimento della catastrofe, del crollo irrimediabile di tutto, come Matt Elliott, venuto dal rock e dalla musica elettronica della banda Third Eye Foundation. Elliott, inglese di Bristol ma da molto anni in Francia, dopo un primo assaggio dello spleen nell’album The Mess We Made, del 2003, lo ha riprodotto in pieno nella trilogia The Drinking Songs, The Failing Songs e The Howling Songs. Basta scorrere i titoli dei brani per accorgersi dell’atmosfera calamitosa del suo recente lavoro: Lament, The Guilty Party,  What The Fuck Am I Doing In This Battlefield?, C. F. Bunty (che sta per Completely Fucked, But Unfortunately Not Dead Yet: Totalmente fottuto, ma purtroppo non ancora morto), e poi A Waste Of Blood, imperniata sulla scellerata politica estera americana, e il pezzo più emozionante di tutti, The Kursk, dedicato alle vittime della tragedia del sottomarino russo, che inizia con le voci concitate, disperate, dei marinai rinchiusi nel sommergibile in fondo all’Artico, lo scricchiolare della struttura metallica sotto la forte pressione, e le voci che si sommano con un dolcissimo e ispirato spirito sacro, come se fossero gli spiriti dei giovane militari stessi che cantano, ogni tanto sovrastate da un grido di terrore.

Un vecchio e saggio detto insegna: “caccia via la natura a piedi ed essa ritornerà a cavallo”. Si riproporrà, la natura dell’uomo, con più potenza e più arte di prima della sua proscrizione. Ecco, i talentuosi musicisti che ho citato sono tra i creatori, presenti anche nell’area delle arti visive o letterarie, che non permetteranno mai che il territorio più crepuscolare dello spirito venga nascosto o cancellato dalle menzogne neoliberali che vogliono l’essere umano del presente esiliato da sé stesso, accecato, stordito, a ballare da solo e con ebbrezza sull’orlo dell’abisso.

 

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Julio Monteiro Martins (Niterói, 1955-2014), scrittore italiano di origine brasiliana,autore, tra l’altro, di Racconti italiani, La passione del vuoto, madrelingua e L’amore scritto. È stato per quasi 15 anni  il direttore di Sagarana.

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