La cognata: cronaca di una collettività di malessere

Ripensando a tutte le polemiche e riflessioni che ci sono state ultimamente a livello internazionale sulle traduzioni, mi è venuto in mente un pezzo che avevo scritto nel 2009 a proposito dell’interpretariato per un laboratorio di scrittura interculturale organizzato all’università di Bologna per Eks&tra.  Traduzione e interpretariato sia in maniera formale che informale, sia per necessità di comunicazione che per necessità economica, sia per  creare ponti intellettuali e letterari sia qualche volta per semplice piacere o automatismo,  praticamente fanno parte della mia vita da quando sono nata.  La traduzione e l’interpretariato mi hanno insegnato l’importanza delle sfumature, hanno messo l’accento sulla differenza ma anche sulla sua comunicabilità (e talvolta incomunicabilità) e la possibilità che piani diversi possano essere messi in contatto ed arricchire l’esistente.

In questo racconto/cronaca descrivo  invece un’esperienza risalente agli anni 90 del novecento ambientata a Berkeley in cui la volontà comunicativa e di fare da ponte si scontra con le architetture di potere delle istituzioni portando a riflessioni sulla storia e gli spostamenti degli umani, l’incomunicabilità che talvolta si manifesta nelle famiglie, le scomode situazioni in cui a volte ci troviamo in situazioni lavorative.

 

LA COGNATA

“Quick, stop her, don’t you see she is bringing him a cappuccino?”
Ma si può essere così sceme da entrare lì dentro con il vassoietto di cartone da due tazze, cosí in bella vista? Roba da commedia all’italiana e scena con garzone da bar, mica la giusta entrata di una competente seppur ancillare macchina converti-lingua, a cui non si chiedono moti cerebrali propri. Ed eccomi all’ingresso del lungo corridoio, costeggiato da carrelli metallici con vari oggetti di scena riposti sui ripiani, eccomi lí a scusarmi con l’aria da cervo accecato dagli abbaglianti: “ Oh, he can’t drink it? I thought it would cheer him up, remind him of his country.” Questa mia apologetica affermazione con richiami alla nostalgia del proprio paese viene accolta con sguardi di commiserazione. Vade retro dilettante, lascia fare agli addetti ai lavori! Loro invece sí che la sanno lunga sui reconditi sentieri cerebrali, su quando s’ingarbugliano e ti portano per selve oscure, loro sì che sanno aiutare la gente a districarsi.
Comunque me la perdonano (vista anche la difficoltà a trovarne un’altra competente nei dialetti gallo-italici). Un’inserviente strappa dal vassoio una delle due tazze di carta e la rovescia nel cestino indicandomi l’uscita se voglio andare a bere il mio. Decido lí per lí di non arrendermi. Faccio cenno che esco a bermi il mio cappuccino, e trascorso un lasso di tempo credibile rientro con aria compunta chiedendo come stia John oggi. “The usual. At least he didn’t cry all day. Why don’t you go get him and walk him to his group?” Preparata da questo quadro poco allettante della situazione psicologica del “Cliente” dell’agenzia di traduzioni che mi ha assunto, mi avvio, busso e mi richiudo la porta dietro estraendo dalla borsa il cappuccino clandestino, “Ma u l’e’ freidu, ti m’e’ purtou in cappûcciu zeou.“ “Mi dispiace Giovanni lo so che il cappuccino è gelato, ma mi hanno intercettato, devo essere più cauta la prossima volta. E adesso bisogna andare a fare la terapia di gruppo’’. “Quella bagascia de mè cugna’, se nu mi nun saieva chi. Appena u l’e’ mortu mè frè, a nun vedeiva l’ua de liberase de mi.”  Sempre la solita solfa, la sua situazione è colpa di “quella puttana” di sua cognata che non vedeva l’ora di liberarsi di lui non appena morto suo fratello. Gli sorrido e gli prendo il braccio guidandolo verso la sala della terapia.
Bella collezione, una specie di ONU della demenza, tutti i gruppi etnici rappresentati in varie fasi di “disagio”. Nel mezzo un biondino smilzo ed occhialuto dall’aria comprensiva e la sua giovane assistente cino-americana dallo sguardo dolce e rassicurante. Ambientino allegro, pieno di luce, morbida moquette giallastra, poltrone rivestite di tappezzerie dai colori vivaci, riviste tipo anticamera del dentista, qualche libro con fotografie di luoghi esotici. Poi un’infinità di locandine con orari degli autobus, programmi di palestre e piscine, attività dei senior center, le varie offerte dei Community College, le attività e i servizi delle biblioteche di quartiere. Alcune delle brochure sono in spagnolo e in cinese. L’hanno appena ristrutturato Herrick Hospital. Fino all’anno scorso c’erano i pavimenti di linoleum e la parte incerata andava fino a metà parete. Pare che venisse considerato più igienico. Più facile da pulire. A quell’epoca anche il personale sembrava più incazzato. Adesso invece perfino lo staff sembra rinato: hanno sguardi cordiali si muovono con dinamismo come trascinati da un élan vitale che elude i ricoverati, che invece si muovono con passi pesanti, inzavorrati dagli psicofarmaci. Forse sono ancora così pimpanti perché molti li hanno assunti da poco; dagli ancora qualche anno e vedrai…
Lo Smilzo solare scambia qualche battuta con quelli più svegli, poi, una volta raggiunto il quorum incomincia il suo lavoro*: “Good morning. Good to see you all. And now let’s see how everybody is doing… Jason, you seem cheerful today. I see you have picked up some schedules. Do you wanna tell us what you plan to do when you leave here?” Il ragazzo si guarda intorno impacciato, come se tradito in un suo piano segreto. “Oh, nothing much, Mr. Woods. You know I can’t drive with the medication. .. it’s hard to get around. My friends are all in school and my mom works”. Il suo vicino, un signore sulla quarantina dall’aria superiore bofonchia: “Why am I here? I don’t want to be in this group!” “Please be patient, Dr. Samuelson, we’ll address your concerns later. Rose, you are good at taking buses. Do you want to tell Jason how he can get around in Berkeley?” Poi mi fissa per vedere se sto facendo il mio lavoro. Io sussurro nell’orecchio di Giovanni, per non disturbare il resto dei partecipanti, ma so benissimo che è duro d’orecchi e per di più non gliene frega niente. Rose, una vecchina giapponese sorride. Si sente prescelta, lo Smilzo l’ha strappata alla sua invisibilità, la fa sentire utile. “Mr. Woods, I use to take rail everywhere. You know I live in Berkeley a lon time. Near where now Ashby Bart station, there was rail cars, Lorin station, you go everywhere: to Oakland, to San Francisco, to the bay. So fast. But when I come back from internment camp, you know I was there four years, I was 18 years old when I come back, station no more there, they put buses and then Bart, now the buses don’t work so good. You have to wai a lon time.” Una lezione sulla storia dei trasporti pubblici di Berkeley… per non parlare delle possibili polemiche su come avevano trattato i giapponesi. Non esattamente quello che voleva sentire, ma lo Smilzo non demorde. Nel frattempo una ragazza afroamericana si alza, non ce la fa a stare seduta a sentire queste chiacchiere insulse, con la scusa di fare pipì se ne va a fumarsi una sigaretta. C’è una stanza in cui è ancora possibile farlo, lì c’è anche il tavolo da ping pong, magari riesce a rimediare una partitina. Potrebbe ancora esserci Ramona se non l’hanno dimessa. Quella sì che è una in gamba. Era riuscita perfino a farsi portare del fumo da suo fratello. Difficile da mascherare quell’aroma. Allora Ramona, quella furbastra si era inventata di essere buddista e che per ricreare un’atmosfera consona alla meditazione doveva bruciare almeno tre bastoncini di incenso. Si erano divertite da matte la settimana scorsa, la roba era anche di ottima qualità, Mendocino Gold, al fratello di Ramona la forniva il postino che aveva un fratello coltivatore diretto nella California del Nord.
“So John, how are you today? I understand that Dr. Holbrook said you can leave next week after he speaks with your sister-in-law and your nephews. Have you thought about what you want to do when you get out? You are doing a lot better now. “ “Giovanni, il dottore vuole sapere se hai pensato a quello che vuoi fare quando esci da qui. La settimana prossima, dopo che vede tua cognata e i tuoi nipoti, ti dimettono perché adesso stai molto meglio”. Udite queste parole Giovanni scoppia a piangere. Ora interviene l’assistente. L’hanno assunta anche perché oltre a essere brava appartiene a una minoranza e “potrebbe quindi ottimizzare il rapporto con gli utenti” di Herrick, una buona fetta dei quali appartiene a gruppi etnici non caucasici. Infatti, mentre lo Smilzo parlava, si era messa a ripassarsi possibili approcci per gli utenti. Guardando John cercava di mettere a fuoco –Ma gli italiani sono una minoranza etnica? Loro sono un po’ in mezzo, in Ethnic Studies ci avevano fatto la storia dell’evoluzione del concetto di bianco, e secondo loro per molti anni gli italiani non ci rientravano, specialmente quelli del sud. Ah, sì tra le cose paradossali c’era il fatto che i contratti di affitto avevano condizioni diverse per immigrati italiani a seconda se erano meridionali o settentrionali. Ma Genoa dove diavolo sta: al nord o al sud dell’Italia?– Si avvicina al nonno e comincia ad accarezzargli le spalle e gli fa**,” But John, think how much better it will be out there. You can take walks. You can take the bus and go to Strawberry Creek, to the Botanical Garden. You live in the Temescal area, right? You know at the library they have all sorts of interesting programs. You know, the Colombo club is right there. Sometimes you can go and visit with your old buddies. And then, if you have a problem, you can tell your sister-in-law, she can help you.” Non l’avesse mai detto. Per quanto la scheda clinica ricordasse che “in seguito ai trattamenti effettuati, il paziente presenta un accresciuto deficit nella padronanza della lingua inglese”, quella parola – sister-in –law – è impressa indelebilmente nella sua mente. Giovanni reagisce, raccoglie quelle poche forze che gli restano e tira su dal profondo quelle striminzite parole di inglese che gli sono rimaste dopo la terza serie di “trattamenti”. “My sister-in-law, she hate me. I no take the bus. I fall. I no cook, I cry all time.” Lo Smilzo e l’assistente adesso mi guardano incerti. Vorrebbero che intervenissi, che lo convincessi che fuori è meglio, che ce la può fare. Ora dovrei smettere di fare la macchina converti-parole e trasformarmi in una specie di wonderwoman dall’eloquio suadente, per tirarli fuori dal pantano in cui si sono cacciati. Spiacente, cercatevene un’altra e auguri. Io sono paralizzata. Sono giorni ormai che non faccio che pensare a Giovanni chiuso in quello stanzino, le braccia e le gambe immobilizzate e gli elettrodi sulla testa. Cervello fritto e non siamo in cucina. Negli ultimi cinque anni gli hanno fatto ben tre “courses” di questa meraviglia tecnologica, unico prodotto del Made in Italy di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Trattamenti necessari perché bisognava scuoterlo. Perché era sempre triste, non aveva voglia di fare niente. E pensare che, per quanto mi aveva detto “la cugnà” Irma, durante la sessione di briefing per l’interprete, si erano sforzati a portarlo qui da Genova. Gigi, il fratello maggiore aveva trovato lavoro in una cava a Pleasant Hill e lì avevano sempre bisogno di mano d’opera. Poteva portarci anche suo fratello, che forse non era un genio, ma era forte ed un gran lavoratore. Tutti i lavoratori della cava li avevano sistemati in un quartiere, a quell’epoca un po’ squallido di Oakland (ma ora ricercatissimo), il Temescal. Lì c’erano già tanti altri italiani. Tanto stavano bene tra di loro. Avevano aperto due o tre delicatessen dove potevano comprarsi gli alimenti da WOP (WOP cioè without papers = senza documenti, termine derogatorio appioppiato agli italiani immigrati, spesso alternato al termine Dago, di incerta etimologia). Prima della globalizzazione, per alimenti da WOP bisognava intendere le pallide imitazioni che si potevano ottenere usando ingredienti MADE IN USA, quindi il pane industriale tipo sourdough bread Colombo (che almeno aveva un minimo di crosta), il caffè bruciato denominato Medaglia D’Oro, la pasta fatta con la farina di grano tenero che si scuoceva subito. La mozzarella veniva dal Wisconsin e non era più un formaggio fresco. Del salame meglio non parlarne. Però erano le cose che più si avvicinavano ai loro sapori. Sempre meglio delle porcherie che mangiavano i “mangia-checcha” o “cake eaters” mangiatori di torta americani. C’erano due o tre pizzerie, ma in realtà ci andavano gli americani perché gli italiani mangiavano meglio in casa. Quei soldi che facevano se li mettevano da parte per tornare al loro paese. Ogni tanto magari potevano andare al Colombo Club, al club La Fratellanza, ma il guaio erano quelli di seconda o terza generazione, gli italoamericani. Una parola d’italiano non la sapevano e non facevano altro che bere. Ormai si era trasformato in un club per ubriaconi. E in tutto questo Giovanni che c’entrava? Aveva imparato l’essenziale, quel poco di inglese che sapeva gli serviva per farsi capire quando entrava nei negozi o prendeva l’autobus. Tanto sull’autobus per la cava di Pleasant Hill erano tutti paesani, piemontesi o genovesi, quindi era come essere a Zena. Il mare però non c’era. L’aveva fatto tutti i giorni, alzandosi alle cinque e mezza, per quasi trent’anni. All’inizio aveva abitato da suo fratello, poi con i soldi messi da parte si era comprato un appartamentino e viveva da solo. Ogni tanto sua cognata lo aiutava, gli stirava le camicie, o gli faceva le grandi pulizie in casa, ma lui si era abituato ad andare alla lavanderia a gettoni e a cucinarsi da solo. A sessantacinque anni era andato in pensione. Il quartiere nel frattempo era cambiato. Gli italiani che avevano i soldi si erano trasferiti nei sobborghi, terrorizzati dal crimine e dalla vicinanza dei neri con cui ormai dividevano il quartiere. Fino a quando Gigi era vivo le cose avevano in qualche modo funzionato. Quando gli prendeva la tristezza facevano una passeggiata insieme. Andavano al porto di Oakland o a China Basin, a San Francisco. Certo che lavorare 30 anni in una cava per gente di mare non è proprio il massimo. Ma quando erano arrivati loro non era semplice entrare nel sindacato dei portuali, e, visto che senza quella tessera non c’era speranza, avevano preso quello che passava il convento. I due fratelli, ormai pieni di acciacchi qualche volta andavano a vedersi le corse dei cavalli al Golden Gate Fields e se proprio gli andava bene, prendevano quegli autobus organizzati per pensionati e si facevano una capatina ai casinò di Reno, nel Nevada, non c’erano ancora i Casinò degli Indiani dietro l’angolo come ci sono adesso. Giocavano alle macchinette, per ore a inserire cinquini o quarters. Quando proprio gli prendeva la nostalgia si mettevano ad ascoltare i vecchi dischi di Carlo Buti e Claudio Villa e dopo un po’ gli passava. Il guaio era venuto poi, quando era morto Gigi, la tristezza non era piu’ andata via e la cognata disperata l’aveva portato dal medico per quelle cose di testa. Le avevano promesso che lo potevano curare, che con qualche scossa sarebbe tornato normale, (quasi nuovo insomma)…
A me invece la scossa arriva dalla voce dello Smilzo che mi riporta al presente, ***“Ms Piccolo, please tell him that tomorrow morning we want him to come to the meeting with Dr. Holbrook and his family.” Per fortuna non aveva pronunciato la parola fatale, “sister-in-law”. Glielo comunico, Giovanni mi guarda e non mi vede, risucchiato nell’orbita della sua tristezza.

 

*Italiani, popolo assuefatto al doppiaggio, non temete, adesso vi aiuto con le didascalie così non dovrete arrovellarvi il cervello per capire le lingue del potere. Purtroppo di questo servizio i malcapitati migranti non ne hanno potuto usufruire e si sono dovuti arrangiare capendo forse una parola su tre. Questo naturalmente ha poi dato pane a gente come me, italiane acculturate assoldate dalla legge per eliminare ambiguità e malintesi nelle interlocuzioni a sfondo ufficiale.
Dialogo a pagina 3:
Smilzo: Buongiorno . Sono contento di vedervi tutti qui. E adesso vediamo un po’ come vanno le cose. Jason, oggi mi sembri di buon umore. Vedo che hai preso delle brochure. Vorresti dirci cosa intendi fare quando verrai dimesso?” […] Ragazzo: “ Oh, non potrò fare molto Sig. Woods. Lo sa che non posso guidare dopo aver preso gli psicofarmaci… è difficile spostarsi. I miei amici sono tutti a scuola e mia mamma lavora” […] Signore distinto “Perché sono qui? Non voglio essere in questo gruppo!” Smilzo“ Abbia pazienza, Dott. Samuelson, più tardi prenderemo in considerazione il suo caso” […] Smilzo “ Rose, tu sei brava a prendere l’autobus. Vuoi spiegare a Jason come ci si muove in autobus a Berkeley?” Rose “Sig. Woods, una volta prendo tram tutte parti. Sai vivo a Berkeley molti anni. Dove ora c’è stazione metro Bart, una volta tram, puoi andare dove vuoi, a Oakland, San Francisco, baia. Velocissimo. Ma quando tornata da campo internamento , sai sono stata lì quattro anni, avevo 18 anni quando tornata, stazione non c’è più, messo autobus poi Bart, e ora autobus non buoni, devi aspettare tanto tempo.”
Dialogo pagina 5
**Psicologa “Ma John, pensa a quanto sarà più bello fuori da qua. Puoi fare passeggiate. Puoi prendere l’autobus e andare a Strawberry Creek, all’Orto botanico. Abiti nel quartiere Temescal, vero? Lì in biblioteca hanno tanti programmi interessanti. Sai il Colombo Club è proprio nel tuo quartiere. Qualche volta puoi andare a trovare i tuoi vecchi amici. E poi se hai qualche problema, puoi dirlo a tua cognata, lei ti aiuterà.” John: “Mia cognata, odia me. Autobus non prendo. Cado. Non cucino, piangere sempre”.
Dialogo pagina 7
Smilzo“Signora Piccolo, la prego di dirgli che domattina vogliamo che venga ad una riunione con il Dott. Holbrook e la sua famiglia”.

 

Image by Daw8ID from Pixabay

Social

contacts