La fatica del fiore del cappero – Copione integrale di una performance/lettura dedicata a Tommaso Campanella (Placanica, luglio 2018)

Proprio tre anni fa, in questi giorni,  a Placanica (R.C.) con  Irene De Matteis (movimento) e Marco Papa (chitarra), all’epoca come gruppo Mangiasciumi, su invito di Daniela Maggiulli che era tra e organizzatrici di un festival dedicato ai luoghi deputati della cittadina, mettevamo in scena una lettura poetica  dedicata a Tommaso Campanella, basata su testi scritti da me e recitazioni di alcune poesie del filosofo. Si trattava di testi pensati specificamente per il monastero domenicano di Placanica, in cui Tommaso Campanella prese i voti, nel piccolo centro che si affaccia sullo Ionio, in provincia di Reggio Calabria.

Anche se come gruppo non esistiamo più e ognuno di noi ha intrapreso percorsi diversi voglio mantenere memoria e traccia d’archivio  di quella performance che a sorpresa, fuori copione, si concluse con le performance dell’uomo carta Enzo Correnti, e dulcis in fundo  Ina Ripari e Antonio Martin.  Sotto riporto il copione integrale (con l’eccezione delle performance a sorpresa)

 

Copione Interregno a Placanica

 

“La crisi consiste precisamente nel fatto

che il vecchio sta morendo ed il nuovo non può ancora nascere;

[PAUSA  7 secondi]

 

in questo interregno appaiono una gran quantità di sintomi morbosi”

 

[MARCO suona per creare atmosfera, almeno 20 secondi]

 

 

Sindrome morbosa

della rosa della rosa della rosa

coltivata in Etiopia in terre accaparrate

da mega-imprenditori sauditi o dalla Cargill

Mani nere l’han curata, accarezzata

poi strappata  spedita nella stiva  se n’è volata

poi è atterrata, per un’ora  immagazzinata e poi

per le strade di Palermo di Bologna di Torino

un bengalese poco più che bambino

me l’ha offerta a mezzo euro

perché non era più fresca di giornata

SALDI, SALDI, SALDI

teniamoci saldi

nell’interregno

tra le sindromi morbose

sindoni irradiate

antropogenici cambiamenti

antropologici mutamenti

e ammutinamenti

costituzionali scrostamenti

e crollo di nazioni

Negli interstizi

vaga la voce

fluisce la nota

che la bussola resetta

e come arca

spera e aspetta

(dalla raccolta Canti dell’Interregno di Pina Piccolo)

[PAUSA 8 secondi]

 

 

[MARCO e IRENE lavorano sulla fatica e ingegno]

La fatica del fiore di cappero

lì aggrappato

al mattone che si  sgretola

sul muro della rocca antica

All’ombra delle ali del piccione

che il fresco si  gode

rifugiato

in una bocca di fuoco

da dove un tempo

volavano

palle di cannone e olio

bollente.

 

 

L’ingegno del fiore di cappero

che sa che il bocciolo verrà colto

e intuendo quel filo di terra

che s’incanala dove cede il mattone

lì lancia la sua radichetta

e lì produce non solo aspetta

tempi migliori

 

 

La felicità del fiore di cappero

che nella sua raggiera risplende

contro lo sfondo viola

di un’ umiltà di sé innocente

e per questo potente

più d’ogni arma e trama.

[IRENE termina con posa aperta]

 

 

 

[PINA parte sola e poi ridetto con I e M, in unisono]

Una fame antica

attaccata alla grata

dove ora si arrampica il caprifoglio

s’acqueta col miele che succhiato dall’ape

cola in eccesso

abbondanza di vita.

 

Si raccoglie un sospiro antico

di domenicano figlio cadetto

lui, alla scienza votato

che trame di stelle

fissa nello specchio della cisterna

ricamandone figure di pensiero

perché l’agire gli è limitato

 

Nelle crepe tra i mattoni

osserva scorrere

la verdastra vita del lichene

e a quella si va comparando.

 

Oggi per contrade silenti  [IRENE si prepara per  movimento]

s’inerpica una speranza

incede felpata

al cospetto di vaghe loscure

s’infiora dove il cemento si è crepato

e resta allo scoperto

il cuore della terra.

[pausa di almeno 8 secondi]

 

 

 

 

Dalla cisterna risale [IRENE  incalza con il movimento per liberarsi]

un rimpianto

per il mondo lasciato

affondato

legato a un masso

striato dei terrori d’occidente

E con ricciolo di danza

volteggia per il chiostro

sfuggendo agli antichi ferri

dell’ordine di nascita.

[IRENE volteggia e va a leggere la prima poesia di Campanella]

 

 

Di Tommaso Campanella

Delle radici de’ gran mali del mondo.
Io nacqui a debellar tre mali estremi:

tirannide, sofismi, ipocrisia;

ond’or m’accorgo cohn quanta armonia

Possanza, Senno, Amor m’insegnò Temi.

Questi princìpi son veri e sopremi

della scoverta gran filosofia,

rimedio contra la trina bugia,

sotto cui tu, piangendo, o mondo, fremi.

Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,

ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno,

tutti a que’ tre gran mali sottostanno,

che nel cieco amor proprio, figlio degno

d’ignoranza, radice e fomento hanno.

Dunque a diveller l’ignoranza io vegno

 

 

[IRENE  (?) si avvicina e leggiamo insieme seconda poesia]

4  Del mondo e sue parti.

Il mondo è un animal grande e perfetto,

statua di Dio, che Dio lauda e simiglia:

noi siam vermi imperfetti e vil famiglia,

ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto.

Se ignoriamo il suo amor e ‘l suo intelletto,

né il verme del mio ventre s’assottiglia

a saper me, ma a farmi mal s’appiglia:

dunque bisogna andar con gran rispetto.

Siam poi alla terra, ch’è un grande animale

dentro al massimo, noi come pidocchi  [MARCO suona Annunciazione]

al corpo nostro, e però ci fan male.

Superba gente, meco alzate gli occhi

e misurate quanto ogn’ente vale:

quinci imparate che parte a voi tocchi.

 

[MARCO Assolo, IRENE arrotola]]

 

1.  Esimio Ministro Della Ruspa,

non di noi parlava

che per noi  di pacchia

non si trattava

non siamo che pacchiani e pacchiane

gente di tutt’altro rango

contadini, campesinos, cafone e  viddhrane

zingare calabresi dalle gonne variopinte

e dai corpetti strani

curve un tempo

sulle foglie del gelso

per produrre dal bozzolo la seta

dei vostri abiti di classico bon ton

dalla parca tavolozza approvata

da diafane contesse e figlie di notai.

 

Noi figlie di pacchiane calabresi

con delicatezza  contavamo

50,000 fiori di gelsomino

la notte nelle ceste

per i profumi

che dalle vostre altezze

esalavano

e lottammo [P], vincemmo [I]

e perdemmo[M]

per la dignità del vivere

quotidiano

con un occhio verso il monte lucente

e l’altro a proteggerci dallo sgherro

locale e nazionale

prima che intere generazioni

il treno altrove se le portasse

[pausa di almeno 8 secondi]

 

Oggi non è certo dalla pacchia di quelle pacchiane

che discendono i mandanti di voi pascià di Palazzo Chigi

ma miracolo

il tempo, le banche, le barche

I tiranni, la fame, la desertificazione

le alluvioni  i fucili sui nostri lidi

[Cue]voilà [PMI] i Soumaila hanno portato

Mani nere che spiccano tra il rosso

dei pomodori e delle arance,

tra le lamiere le discariche e i veleni

questi nuovi pacchiani

dai colori ancora più sgargianti

e dai ritmi  ancora più indiavolati

[2 volte] da nuovi maestri

della dignità del vivere

e del ribellarsi

ci faranno-

[stacco di almeno 10 secondi]

 

 

 

 2. Arance e Avorio

[Pina assolo]

 

Ahmed Hagi

21 anni

della tua milza

ne puoi fare a meno

Lasciala pure in pasto agli sciacalli

e ai loro “figghioli”,

cuccioli che la sera

danno la caccia al nero.

 

Saga Habib

amico ventenne

gambizzato,

non ti turbare

se sullo stesso  suolo

che ora calpesti a stento

altri a milioni vivono sicuri

e  nelle loro tiepide case

tornando a sera trovano

il cibo caldo e visi amici1[i]

Mentre per voi solo la landa

della fabbrica abbandonata

tetto sfondato

in 250 a bivaccare

sacco a pelo

donato da Medici senza frontiere

 

Tricolore d’Africa

nel profondo sud:

il verde delle foglie

l’arancione dei mandarini

il nero della mano che li coglie

E prima arrivarono le luvare

Poi toccò agli arabi portarci le rangiare:

due tipi, uno le burtuqal, quelle dolci

e le narang, quelle amare

frutto preferito dagli elefanti  indiani

che qui non ci sono

ma in compenso ora vengono

a raccoglierle gli ivoriani le narang

arance e avorio

tastiera di un dissonante

triste preludio globale.

 

Oggi nelle nostre tiepide tane

superbi e pavidi

come sciacalli

tra lo schiamazzo della televisione

e  le solitudini

degli avatar

ce ne stiamo a ordire inferni

per gli altri

dietro  l’angolo di casa. [si finisce in unisono, prima MARCO e IRENE noise per tutta la poesia]

[Stacco di 7 secondi]

 

 

 

« Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene…

non saranno a lungo ai diavoli affidate

a scacciarli processioni di santi neri [Marco attacca when the saints]

che accorrono al richiamo

di rimbombi

e scatenano ridde e tarantelle

 

le lingue delle sirene

si scioglieranno in profezia

e il clandestino Enea

smetterà di vagare

 

sulle onde del mare

salvifica cesta apparirà

zeppa di infanti

 

al sole inneggeranno

le loro parole

gli elmi bucati e arrugginiti

coleranno a picco

 

e nelle foreste

gioiranno gli orangutan

a noi cugini

dagli alberi dondoleranno

esultando alla dichiarata

illegalità dei confini

e l’obsolescenza di notai e aguzzini

 

 

 

 

[7-8 secondi stacco]

 

[MARCO Costruisce zattera sonora]

Sia lode alla bussola che dentro
La bottiglia vuota
Sui flutti galleggia
Sfuggendo a radar
Satelliti e motovedette
E forse approda in un antico
Borgo spopolato

Nella punta estrema della nostra terra
Non lontano dal capo dove si spartiscono i venti
Un tempo geloso custode di bronzi
Dove accolte in vecchie case
Sbrindellate
Ora donne
Dai capelli neri e crespi
Sbarcate da lidi lontani
Intrecciando la ginestra
Assieme alle nostre nonne
E alle loro nipoti dalle mani
Color dell’ulivo creano il cesto
Zattera galleggiante che
Dal Faraone
Forse ci salva

[ ultimi tre versi, recitati 3 volte, seconda e terza M e I recitano vicini al pubblico]

 

Sotto  il link con un breve video delle prove

https://fb.watch/72o9fnIfu1/

 

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