Periferie geografiche e letterarie

Sempre da ” La macchina sognante” di Julio Monteiro Martins, Besa 2015

  1. Periferie geografiche e letterarie:

Ripasso le letture che mi hanno affascinato in questo ultimo quarto di fine millennio e scopro che la stragrande maggioranza arriva dalle periferie, compio questa operazione dall’umile posizione di chi cerca di leggere cinque libri alla settimana e qualche volta ci riesce. Sono romanzi che arrivano dalla periferia generica (la fantascienza, il neo poliziesco) dalla periferia geografica (se mai l’Europa è stata il centro) e anche dalla periferia letteraria (saggisti che sono passati al romanzo, giornalisti che hanno inventato un genere confinante con la cronaca). […] E chiudo quasi senza desiderare una conclusione definitiva: di fronte ai critici che spesso ti rivelano il finale del romanzo, questo assalto dalla periferia, rivitalizza i generi e mantiene saldi e contenti centinaia di migliaia di lettori. (Paco Ignacio Taibo II, Quattro idee non molto chiare sullo scrivere romanzi, 1997)

 

JMM – Taibo ha ragione per quel che riguarda il ruolo di primo piano che ha assunto la periferia dell’Occidente nel campo letterario (oggi con i BRICS e l’indebolimento del ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nel mondo penso che anche il concetto di «periferia» non regga più: è il centro stesso che si sdoppia e si sposta altrove). Anche Kundera, in un famoso discorso a Gerusalemme poi pubblicato nel suo L’arte del romanzo, ha sottolineato che l’arte della narrativa già dalla fine dell’Ottocento si è spostata dall’Europa ai suoi confini, prima la Russia, in seguito gli Stati Uniti, il Giappone, l’America Latina e infine l’Africa, la Cina, l’India e i paesi arabi. Sono le regioni del mondo che hanno accolto e sviluppato quello che lui chiama «la denigrata eredità di Cervantes».

Penso che se il romanzo europeo è più europeo dove non è Europa si deve al fatto che “Europa” in verità non è altro che il desiderio (o il bisogno) di Europa. In nessun punto del Vecchio Continente oggi è possibile trovare l’Europa ideale che sussiste nella mente dei messicani, degli algerini, e dei coreani, con la sua arte, i suoi valori umanistici (che nemmeno il nazismo diffuso degli anni 30 e 40 è riuscito a screditare) e il suo leggendario diritto al dissenso (oggi sotto attacco dai media, dal conformismo di mercato e dalla frammentazione tipica del mondo virtuale).

Quando ero un ragazzino, in Brasile, la mia maestra, quando si parlava di Europa, diceva solennemente: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire» (frase attribuita a Voltaire ma che sembra egli non abbia mai detto o scritto, e che sarebbe invece della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall nel suo The friends of Voltaire, del 1906). Ebbene, come non diventare “europeo” dopo una tale pubblicità? L’affermazione mondiale della narrativa di finzione – anche nelle sue forme più contemporanee di narrativa post-coloniale o di narrativa “della migrazione” – è il segno più inequivocabile del vero successo dell’idea di Europa, il suo “figliol prodigo” diciamo.

Il romanzo è diventato anche una delle forme possibili di liberazione dal colonialismo proprio per il potere che ha di evocare l’immagine altra e alta di un popolo, sintetizzata nell’espressione the Empire writes back, l’ironico titolo del saggio di Ashcroft. Le «periferie geografiche» menzionate da Taibo sono ontologicamente “Europa” attraverso molte delle manifestazioni della loro creatività, che emanano l’essenza di un’Europa che ritorna trasformata, forse per ricordare a questa smarrita propaggine dell’Asia cos’è, o cos’è stata, o cosa dovrebbe essere l’Europa.

Come latino-americano Paco Taibo sa bene, come lo so io, cosa l’idea di Europa rappresentava per noi giovani duranti gli anni delle dittature militari nei paesi dell’America Latina. Quelli di noi che riuscivano a sopravvivere e trovavano un modo di attraversare le frontiere andavano in Francia, in Italia, in Inghilterra e, a partire dalla “Rivoluzione dei Garofani”, anche in Portogallo. L’Europa, per noi, era più che un rifugio, era il grembo materno. L’unica fetta di mondo dove ci sentivamo protetti, intoccabili. Per questa ragione niente poteva confermare meglio la nostra immagine di Europa quanto per esempio, la protezione che ci è stata offerta nella sede dell’Ambasciata Italiana a Santiago del Cile nelle settimane successive al colpo militare di Pinochet. D’altra parte niente poteva deluderci di più del ruolo che la stessa Ambasciata avrebbe sostenuto a Buenos Aires qualche anno più tardi, chiudendo le proprie porte ai giovani perseguitati, anche adolescenti, i cui corpi erano lasciati a marcire sui marciapiedi del circondario: un’omissione spietata motivata dagli interessi italiani di non mettere a repentaglio i nuovi affari con l’Argentina di Videla. Ma la nostra voglia di quell’altra Europa è così grande che oggi in pochi ci ricordiamo dell’Europa collaborazionista. Teniamo in vita quasi soltanto la memoria dell’Europa benevola e salvatrice durante i nostri anni di piombo.

Se pensiamo al mio paese d’origine, il Brasile, vediamo che tra le potenze emergenti del XXI secolo è l’unica con radici profondamente occidentali – anche l’influenza della cultura africana presente in Brasile, e quella degli indios sono state in parte occidentalizzate attraverso il sincretismo culturale che è un marchio della storia brasiliana – , l’unica con stragrande maggioranza cattolica, l’unica in cui, diciamolo pure, tutti conoscono Babbo Natale, o le leggende delle streghe, o le favole di Esopo e dei fratelli Grimm, e sentono Pinocchio o Romeo e Giulietta come parte della loro eredità culturale, e l’unica nella quale le persone mediamente istruite amano i film di Fellini, sanno cosa pensava Freud, o Einstein, hanno ascoltato Beethoven e sentono orgoglio del lascito di Leonardo, di Bach o di Magellano. Pensiamo all’architettura di Oscar Niemeyer, alla sua Brasília, al suo Museo di Arte Contemporanea a Niterói, non sono dei meravigliosi sviluppi di un’arte prettamente europea? Niemeyer è figlio della Bauhaus, di Le Corbusier, di Walter Gropius, ma è anche ispirato dalle curve sensuali delle montagne e dei corpi delle donne brasiliane. Come in Niemeyer, il Brasile è sì Occidente, ma un Occidente tropicalizzato e in un certo senso perfezionato, amplificato dal contributo profondo degli africani e degli indios. E attenzione: era già meticcio e transculturale prima ancora della sua nascita, perché i portoghesi che l’hanno occupato non hanno cacciato i mori fuori dalle loro frontiere o ucciso gli ebrei sul rogo come ha fatto la Spagna, ma li hanno “convertiti” – almeno nelle apparenze – e si sono sposati gli uni con gli altri, assorbendo molte caratteristiche della loro cultura come il fatalismo e il fado con i suoi fraseggi arabizzanti lo dimostra ancora oggi. Così, il Brasile si è trasformato in una sorta di Europa solare e abbondante, più aperta e variegata, indirizzata verso il futuro, un’Europa che, al contrario dell’altra più antica, ha voluto abbracciare tutti gli altri popoli della Terra con i loro apporti etnici e culturali, raccolti tutti insieme in una nuovissima identità a comporre il mosaico della “brasilità”.

Tornando alla letteratura, osservo che i critici europei considerano il realismo fantastico come un genere squisitamente latinoamericano, dove regna sovrano l’elemento magico e meraviglioso, le prodezze e le bizzarrie di quel continente al contempo barocco e povero, esuberante, violento, sublime e grottesco. Ma secondo me, il realismo fantastico ha anche ripreso nella sua genesi, e poi sviluppato, una certa letteratura del Medioevo europeo, elaborata in un’Europa precedente al Concilio di Trento, più godereccia e sensuale, l’Europa del Carnevale e del Charivari che ispirò Chaucer, Rabelais e Boccaccio, così bene analizzata da Mikhail Bachtin nel Ventesimo secolo. Sono molti i punti di contatto tra queste letterature e anche tra quelle due società, ciascuna “feudale” a modo suo. C’è un filo nascosto, sotterraneo, che collega Gargantua a Cent’anni di solitudine o il Don Chisciotte a Grande Sertão: Veredas.

Il Nordest del Brasile è la zona più povera del paese, lì la terra è brulla, secca, e la scarsa vegetazione della caatinga è spinosa e ostile, a tal punto che i contadini devono proteggersi con un’armatura di cuoio rigido, nonostante il sole cocente. Ebbene, in questa regione isolata, sperduta, dove ogni uomo o donna deve avere la stoffa dell’eroe per sopravvivere, e dove le storie non sono lette ma tramandate dal canto ritmato dei ciechi nelle piazze e nelle fiere, quali sono i personaggi di tante di queste storie, le avventure della letteratura cosiddetta “de cordel”? Sono storie europee, del Medioevo iberico! L’eroe Pedro Malasartes, della tradizione iberica, picaro e burlone, è coinvolto in battaglie contro i mori e contro i draghi, e salva le pulzelle rinchiuse nelle torri dei castelli. Castelli. Nella caatinga! È chiaro adesso fin dove è arrivata l’Europa tra noi? Forse un brigante del deserto del Pernambuco, un cangaceiro, sa oggi più sui romanzi di cavalleria che un giovane tedesco o italiano che passa la domenica davanti alla playstation a giocare a Grand Theft Auto San Andreas e ad ascoltare heavy metal nel suo mp3. Penso che questo sia un buon esempio di quello che Paco Taibo voleva dire quando parlava della prevalenza della letteratura europea nelle periferie dell’Europa.

In seguito Taibo, nel brano che hai citato, menziona anche altri tipi di periferia, ma secondo me in quei casi l’argomento è fuorviante perché si tratta di fenomeni ben diversi. Parla di saggisti e di giornalisti in prestito alla letteratura, ma lo scrittore qualcos’altro lo fa sempre come lavoro, per campare, una volta che per quasi tutti è impossibile sopravvivere della sola attività letteraria, e chiaramente trasferisce alcuni elementi tipici di queste altre attività intellettuali all’interno delle sue strategie narrative, è naturale che così sia. Oltre ai saggisti e ai giornalisti, ci sono anche i professori, i medici come Cronin, Čechov o Céline, gli ingegneri come Gadda o Primo Levi, postini come Bukowski o burocrati come Kafka. Carver ha fatto il sorvegliante di un parcheggio e Jean Genet il detenuto per gran parte della sua vita. Da ciascuna di queste attività lo scrittore avrà preso elementi e esperienze utili allo sviluppo della sua letteratura, e non solo nel contenuto ma a volte anche nella forma, impregnando il suo stile degli stili più rigidi e puntuali delle sua attività professionale.

Oggigiorno c’è un fenomeno correlato più dannoso, una specie di patologia dell’ambiente letterario: ci sono sempre più attori, magistrati, musicisti, politici, presentatori televisivi, comici e personaggi “vip” della cronaca “rosa” (e a volte anche di quella “nera”) che scrivono libri – o li fanno scrivere da qualcuno come ghost writer – e poi li fanno pubblicare dalle grandi case editrici, le stesse che spesso sono irraggiungibili per gli scrittori veri, di talento. Gli editori sono ben lieti di “prendere un passaggio” dalla fama di cui gode la cosiddetta celebrità. Si tratta di una strategia di marketing sempre più diffusa questa di vendere i libri dei famosi, qualunque robaccia siano, soprattutto in questo periodo di peggioramento della crisi economica dove di libri se ne vendono sempre meno. Siamo davanti all’ennesima truffa a scapito dell’arte, all’utilizzo improprio della forza dei media per spingere i prodotti mediocri di questi falsi scrittori, che oggi fanno un romanzo, domani un album di canzoni natalizie, domani l’altro un ristorantino di grido. Sono fenomeni parassitari della letteratura, che provano a falsificare “l’aura” che le è propria e la usurpano dai libri veri e necessari, colonizzando lo spazio delle librerie e le recensioni sulla stampa. Ma tanto, sono fenomeni fastidiosi ma effimeri, e alla fine voglio credere che i libri migliori arrivino in un modo o nell’altro, a volte per le vie più strane, a chi li dovrà leggere.

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