Trickster rant, ovvero il ritorno della Figliastra….

di Pina Piccolo*

Questo è un monologo a tre voci, che si danno il cambio: nella prima parte parla una donna appartenente a una immigrazione recente in Italia, nella seconda parte una emigrata italiana ‘ritornata’, nella terza ‘la Figliastra’, il personaggio per eccellenza dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.  Alcune parti di questo monologo sono state  recitate ad Archi (RC)  nell’agosto 2018.

 

Di noi sono state dette molte cose… ogni cosa e il suo contrario;

troppe cose:

che siamo sradicati e senza radici, che obiettiamo a radicarci nel vostro territorio o non lo facciamo in maniera adeguata; oppure che cerchiamo in troppi di radicarci qui e stiamo sradicando voi…

se siamo sradicati, che per questa nostra ostinazione, per definizione facciamo parte del mondo del disagio (che come si sa fa girare l’economia e dà posti lavoro)

ormai, per gli operatori del disagio, con i nostri numeri abbiamo sostituito i pazzi, e così avendo chiuso i manicomi, avete approntato i CPT, i Cie, gli hub, riversandoci dentro noi questa nuova popolazione, vittima di disagio. 

A volte persino lo stesso personale addestrato al disagio precedente si è visto, con la perdita del primo grazie al contenimento chimico, aprirsi la prospettiva di occuparsi del disagio di questo altro Altro.  I vostri pargoli, a cui in passato per tenerli occupati, nella cronica situazione di disoccupazione giovanile italica, facevate fare  per qualche anno collaborazione allo sviluppo nei paesi che chiamate del “Terzo Mondo”.  Adesso non più nel “Terzo mondo” (e chiamiamolo così anche se è pieno di pozzi di petrolio, anche se ha storia più antica di quella di Roma),  gli fate fare una specie di servizio civile internazionale (oltre a quello ufficiale delle “missioni di pace”), adesso i vostri figli ve li tenete occupati vicini vicini, nelle vostre cooperative in cui, per 400 euro al mese, a tempo pieno, ci dovrebbero insegnare l’italiano per permetterci così di integrarci e alleviare il nostro disagio, E gira così, con fare postmoderno, la ruota della storia –AGIO e DISAGIO-  AGIO –DISAGIO celando e rivelando i logori rapporti umani di sempre.

Spostandoci poi dal disagio in cui versiamo noi a quelli che creiamo per voi, oltre a rubarvi il vostro potenziale lavoro, in genere siamo d’intralcio al vostro gusto estetico, cioè per voi non siamo proprio belli a vedersi, non rientriamo nei vostri canoni di bellezza:

portiamo in testa fazzoletti e foulard avvoltolati nelle fogge più bizzarre, strani copricapi, colori chiassosi che cozzano con i vostri colori del mese decisi dal Made in Italy, con il vostro capello spettinato ad arte e la gambetta mandata all’angolazione giusta dal tacco,

i nostri mocassini marocchini cozzano col vostro tacco 12 che indossate per “sentirvi a posto”, mentre noi i nostri veli li portiamo perché costrette,

ebbene sì, siamo ingombranti,

anche se talvolta, mossi da pietà volete fare sfilare il nostro slanciato, muscoloso corpo watussi a Pitti Uomo, così prendete due piccioni con una fava, oltre a far godere il vostro occhio ci fate del bene, cercando di integrarci nel sistema Moda italiano.

Dite che vi deturpiamo la purezza della razza.

Fate capire che è ora di far nascere degli angioletti biondi italiani.

Le ministre vi consigliano di evitare certe compagnie.

Dite che ci intrufoliamo perché facciamo parte di un piano internazionale per sostituirvi,

e dal sud degli Stati Uniti alla Polonia si leva il grido è “You will not replace us” cioè,  “Voi non ci rimpiazzerete”

Noi minaccia o amorfa epifania (pare che già 40 anni fa Pasolini, col suo terzo occhio un po’ orientalista, ci abbia visti arrivare, in tanti comandati da “Alì dagli occhi azzurri” e sbarcare sulle spiagge di Palmi), c’è chi ci chiama gli invisibili e col suo buon cuore si dà da fare per metterci in mostra in esotiche gigantografie—sì, le ho viste appese ai muri dei vostri castelli, non me lo sto inventando.

C’è chi si è vinta bandi di fondi europei facendo il casting di questi e queste invisibili nell’androne del palazzo del re Enzo, anche lui una specie di re da un ramo spurio dell’Impero (osservate come tornano i conti) mal accetto a cui il popolo bolognese costruì un palazzo per rinchiuderlo fino alla morte, negandogli riscatto ma in compenso lasciandogli scrivere libri.  Nell’androne del palazzo del re Enzo, alcuni di noi erano ben contenti a farsi ritrarre ed apparire…  E alcuni di noi pensavano che se avessimo fatto video con i nostri pargoletti inneggianti alla pizza e agli spaghetti, rassicurando l’autoctono che mai avrebbero essi pronunciato la parola cous cous, non potevate che accoglierci a braccia aperte alle vostra urne… come infatti non è stato….

E se non siamo invisibili allora pecchiamo di un eccesso di apparenza, cioè dopo aver adoperato le braccia di giorno facciamo fatica a sparire dalle vostre strade e piazze la sera. Ci sentite per i vostri medievali borghi (Italia ottava meraviglia dell’Universo, figuriamoci ora con quel ganzo di Alberto Angela e i suoi 25 milioni di telespettatori, nazione con il maggior numero di siti Patrimonio Unesco di qualsiasi altro paese al mondo), con i nostri linguaggi strani che non sussurriamo sottovoce ma che gracchiamo ad un certo volume. “Ormai sono tutti di loro. Amarcord quando la sera si facevano le vasche in tutta tranquillità, adocchiando le nostre belle ragazze, dotate di cuore grande. E adesso ci tocca sentire questi che urlano nel loro iPhone ultimo modello. Tra l’altro che buzzurri a manifestare in maniera così cutting edge il loro essere arrivati – si limitassero a un Nokia di 10 anni fa, che va benissimo per quello che gli serve”. “Se proprio dovete stare per strada o ve ne state nelle strade che vi diciamo noi, dove la sera c’è il via vai di chi trova esotica la vostra pelle nera. Che ormai siete diventate il rito di passaggio per i bravi ragazzotti di qua che prendono la patente. Pensate un po’, il quiz a crocette del guidatore- l’ultima domanda premio e chi la indovina viene accompagnato direttamente dall’ingegnere che gli ha somministrato l’esame. Altro ché una volta, quando c’era Lui, che tuo padre, con un certo piglio, quella solennità di uomo d’altri tempi, ti portava alla casa chiusa per il viril passaggio, ad aspettare il turno tra bellezze italiche en deshabillé.  Ora invece appena superato l’esame di patente, evvai, lì sulla collinetta appenninica a cercarle. Pare che ci vadano anche i giovani immigrati. Anche loro cercano d’integrarsi ai nostri costumi. Hanno anche i materassi dispersi per le campagne. Occhi dolci di gazzella. Nel vostro luogo deputato. Visto un altro primato nostro linguistico…. Da che cosa viene l’espressione “luogo deputato? “nel dramma liturgico medievale, costruzione in legno, tela e simili che veniva innalzata sul palco per rappresentare gli edifici e i luoghi della passione di Cristo o di altre vicende sacre.” Oggi anche voi, faccette nere, belle abissine, godete di un luogo deputato tutto vostro per rappresentare la vostra di Passione.

———————–Stacco——————————

Noi quelli e quelle dell’esilio, della malinconia,

privi di lingue madri, o con sovrabbondanza di lingue matrigne che secondo gli autoctoni parliamo con strani accenti, oppure noi parlatori di lingue imbastardite, che i vostri dotti ricercatori denominano contaminazioni, innesti, ibridi, meticci, insomma non superbi cavalli arabi ma Ronzinanti della lingua.

Noi orfani di identità, che siamo una vergogna per il nostro paese d’origine, oltre che segno di disagio per quello di arrivo (pur essendoci arrivate da varie generazioni).

Sì, ‘sti buzzurri, che osano rappresentare la madrepatria- urna di beltà passate- con la propria miseria, omini e femmine “sanza lettere”, con qualche sporadico letterato in fuga pronto ad abbracciare altre lingue. Che poi i letterati del luogo stentano a riconoscer loro la maestria.  Diventano, se gli va bene, sottoprodotto di nicchia, se no direttamente prodotto di scarto, semplice biografia, testimonianza, mai all’altezza della Letteratura Vera.

Noi, che quando torniamo non ce la facciamo a moderare la nostra dismisura, negli anni 60 ce ne tornavamo con Cadillac e tailleur rosa, vistoso pugno nell’occhio al bon ton italiano allora dedito allo scialbo beigiolino del tailleur imposto dalla classicità. Ora invece il nostro Progetto Migratorio Inverso prevede l’apertura di officine specializzate in Maserati, Lamborghini e Ferrari…. Macchine che sfoggiavamo dopo decenni di arduo lavoro nel paese d’arrivo per far vedere che eri arrivato… e che ora qui nel paese natio o in quello dei tuoi avi ti guardano con l’occhio storto, come volessi prenderli in giro. Ti guardano come se tu fossi il Convitato di pietra che ha bussato e vuole sedersi alla loro tavola. Ti guardano con quell’occhio protervo con cui il Figlio guardava la nuova famiglia della Madre, nei “Sei personaggi in cerca d’autore”.

Oppure, a te malvoluto ritornato, ti salta in mente di aprire un bar letterario, dove sarai pur padrone di mettere in scena le tue scritture e quelle dei tuoi.  Mica sempre a mendicare uno spazio a questo o a quello? Scomodare assessori e Regione? Ma chi te l’ha fatta fare a tornare? Stavi tanto bene (forse poi non tanto) lì dov’eri…

E infatti, non l’hai voluta ascoltare la parabola del buon Steven King “A volte tornano”, ed eccoci zombie, peggio di Ulisse, riconosciuto solo dal fedele cane Argo, colpito subito da coccolone e muore lì sul posto.  Qui non ti riconosce proprio nessuno… potresti essere un turista qualunque….  Un migrante qualunque…  Un barista qualunque… Se non fosse che sai troppe cose e spesso gliele spiattelli così e li zittisci, e poi ti considerano anche superbo.  Non sai stare al gioco.  Non sai quando dopo un conflitto, la cosa deve rientrare, come sono stati addestrati loro da decenni, avvezzi ormai al ritiro in buon ordine, formati dalla quotidiana frequentazione della politica locale.  Dopotutto già dalla letteratura delle origini si evinceva il diktat: “Vuolsi così colà dove si puote/ e più non dimandare”. Forse vieni da un posto in cui il livello di conflitto è più alto e non ti sai adeguare.

No, tu nel tuo bar vuoi mettere in scena chi vuoi tu e chi chiami come prima attrice, se non La Figliastra….

———————————–STACCO——————————————————–

Questa appare come un lampo a ciel sereno, non come una fioca Madama Pace evocata nel retrobottega, irrompe con grande fragore sul palcoscenico del nuovo Bar Il Trickster, LA FIGLIASTRA, personaggia non tanto in cerca di autore, ma determinata a sfogare il suo rancore, da cui il titolo Trickster rant…  è abbigliata non più nell’abito nero del lutto ma in uno spettacolare abito della LF Design, della camerunese-Italiana Leatitia Feugaing, linea indubbiamente più fortunata di quella della ObOb Exotic Fashions di Castel Volturno estintasi con i 7 immigrati africani uccisi nel suo outlet nel 2008 dalla Camorra. Oggi, la Figliastra porta abiti che combinano tessuti africani e linee europee. La sua risata è sì stridula, e ce l’ha ancora con il Padre, la Madre, il Figlio mentre la Bambina continua ad annegare, stavolta non nella vasca ma è nel Mediterraneo, che annega la bambina in tutte le colorazioni possibili e immaginabili. E il Giovinetto è là con la sua pistola che inetto non sa fare altro che far partire il colpo verso se stesso. E lei la Figliastra è lì, che li vuole inchiodare tutti alle loro responsabilità

“Sé, sono tornata, mancano tre anni al centenario della nostra prima scandalosa rappresentazione, al grido di “Manicomio! Manicomio! “Cento anni, già che ero stanca di andare al braccio di questo e quello nella casa di appuntamenti di Madama Pace, mentre mia madre cuciva e cuciva nel suo retrobottega, come si fa oggi a Prato.  Solo che dopo aver cucito non scuciva come Penelope e il Salvatore non arrivava mai…  allora forse tocca anche a me Salvare- Non ne posso più. “Questo ponte che è la mia schiena” diceva Gloria Anzaldua, chicana, cioè figlia di messicani emigrati, per così dire, nelle terre che adesso risultavano appartenere agli USA, ma che fino a 150 anni fa risultavano essere Messico, e prima ancora erano il favoloso regno di Tenochtitlan. Dopo alcuni anni che cercavo di fare da ponte, derisa e rifiutata da entrambe le sponde, ho deciso invece che mi sarei documentata e gliele avrei cantate, le mie scomode verità …  Ma dove è finita la Figliastra, vi domandavate? Sono quasi cento anni che me ne sto a perdere la vista negli archivi di mezzo mondo, scartabellando nel passato e leggendo negli interstizi del presente, leggendo i segni del futuro disegnati dai writers sui muri delle vostre città … Me l’ha insegnato una zingara addestrata nel suo antro dalla Sibilla Cumana, là nella Terra dei Fuochi, dove oggi si accumulano i rifiuti tossici. Le esalazioni a volte uccidono, a volte rivelano verità occulte.

Allora, riassumendo: vi ricordate quella storia in apparenza scunchiuduta , ovvero sconclusionata, senza né capo né coda, che i Personaggi insistevano il capocomico dovesse rappresentare invece di quell’insulsa commedia “Il Gioco delle parti”? Rammentate, si interrompevano a vicenda, cercavano di fare accettare le proprie ragioni, smentendo gli altri.

Un Padre, dopo aver sposato e avuto un figlio con la Madre la manda a vivere con il suo segretario, tenendosi e allevando il Figlio. La Madre ha dal segretario (la figura del segretario è la meno delineata di tutte) altri tre figli, la Figliastra, Il Giovinetto e la Bambina.  Lo so che mi chiamerete complottista, ma l’avete capita l’antifona? Cioè, il Padre (lo Stato nazionale, in questo caso l’Italia) dopo aver fatto figliare la Madre (popolo) la manda a vivere altrove, cioè la costringe alla migrazione (parliamo dei 14 milioni di italiani migrati fuori dall’Italia dal 1876 al 1915 (all’epoca su 33 milioni di abitanti) e gli altri 10-12 milioni, che sono sgocciolati e continuano a sgocciolare via dai patri lidi dal 1916 in poi). Si tiene un Figlio, il legittimo erede, quello che continuerà a guardare gli altri con sguardo protervo. Tornando alla commedia, questo nuovo e spurio nucleo famigliare conduce una vita modesta (come la maggior parte degli emigrati) in questa nuova casa, ma alla morte del Segretario si ritrova priva di mezzi per sopravvivere. Si devono arrangiare. La madre va a cucire (pallida memoria Penelopea) nell’atelier di Madama Pace per pochi centesimi (mi pare che la storia degli sweatshop sia stata magistralmente messa in scena già nel 1921) ma stentano a campare. L’avvenente Figliastra viene irretita da Madama Pace, che in verità sopra il retrobottega cucereccio gestisce una casa di appuntamenti (come si diceva all’epoca).  La Figliastra però non pare essere molto contenta di fare la sex worker, sarà che ha una mentalità ancora un po’ puritana e lungi dal diventare un’attivista per la legalizzazione della prostituzione accumula rancore fino a quando, nella scena madre (perché mai si dirà così) quella del denouement o dell’agnizione (anche se molesta, da non confondersi con la puntura) viene avvistata dalla Madre al braccio del cliente Padre. E allora, apriti cielo! Non pago di questo dramma già bello tosto di suo, su questo scombinato nucleo famigliare continuano ad abbattersi le sfighe: in un attimo di distrazione da parte dei grandi, la bambina inseguendo paperelle cade nella vasca e affoga, il fratello Giovinetto, sentendosi in colpa, esplode un colpo e si uccide. – badate bene chi è vittimizzato in questa parabola se non i più giovani? Vi ricorda forse qualcosa? Il Figlio, il coccolato legittimo, ce lo ricordiamo sempre con quello sguardo protervo di disprezzo verso il ramo indesiderato della famiglia- non vorrei mettervi parole in bocca, ma non vi ricorda forse qualcuno?

Comunque, riprendendo le fila, il Capocomico, poco convinto del potenziale di marketing della storia, li caccia tutti indiscriminatamente in malo modo, e il tutto si chiude con la risata sguaiata della Figliastra.

Ora, da figlia cacciata della Nazione, tornata per lanciare il mio Je accuse, dopo la farsa messa in scena sullo Ius Soli, sarei nuovamente tentata di lanciare un’altra stridula risata.  Ma la mia frequentazione di archivi vari in questi novantasette anni dalla prima rappresentazione mi fornisce strumenti metodologici ben più sofisticati quindi capovolgendo la situazione rivolgo a voi pubblico le seguenti domande e giuro che come una Erinni non vi darò pace fino a quando non avrete risposto o almeno cercato delle risposte:

  • Se una nazione nel corso di 150 anni perde 26 milioni di persone costrette a migrare, tra queste la maggioranza gente ambiziosa e coraggiosa, che non accetta di fare la fame, sottostare a governi iniqui, o vedersi tarpate le ali, c’è forse qualche impatto sul patrimonio genetico di chi rimane? Se il mero discorso biologico vi sconvolge, buttiamoci sul politico.  Allora, che cosa significa per lo Stato avere una valvola di sfogo da aprire  prima che si prospetti la minaccia che i nodi vengano al pettine dello Stato?
  • Che cosa accade se uno Stato disdegna i propri figli ed è disposto non solo a lasciarseli scappare, ma addirittura li caccia  e rifiuta di riconoscere quelli che arrivano da altri lidi, o che sono figli di quelli arrivati da altri lidi (anche lì in gran parte gente ambiziosa, che non vuole fare la fame, morire di guerra, sottostare a governi iniqui o vedersi tarpate le ali?)
  • Che impatto ha tutto questo sul versante artistico? Che cosa succede quando serri le palpebre per non vedere i film che questi nipotini tornati ti fanno, ambientati in Italia, sulla migrazione, sui Rom, sulla ndrangheta (Jonas Carpignano, il film “Mediterranea”, il film “A Ciambra”, la loro mancata distribuzione nelle sale italiane vi dice qualcosa?) E per quanto riguarda la prole di chi viene da altri lidi? Non è che come la Mussolini dobbiate sempre continuare a non capire chi vi fa il verso, chi vi spiattella in faccia il vostro immaginario bacato, come ha fatto in diretta Bello Figo?
  • Quando parliamo di traduzione dobbiamo per forza limitarci sempre a quel trito e ritrito  traduttore –traditore che le mummie accademiche sfoggiano con ricchezza di aneddoti sulle loro capacità di monolingue che  si lancia verso l’ignoto? O possiamo parlare dell’abominevole bilingue-trilingue, nata dall’incrocio dei mondi, che fin dalla nascita ha in testa e sulla lingua multipli idiomi, a otto anni accompagna i genitori ‘stranieri’ per uffici facendo da interprete. E’ forse una bambina disagiata che bisogna segnalare ai servizi sociali, o invece una precoce trickster che si barcamena nella Babele a volte producendo corto circuiti selvaggi a volte  creazioni epifaniche? L’arricchimento dei registri, la capacità di vivere con molteplici identità e lingue, di creare opere d’arte adatte al 2018 da queste Torri di Babele ricostituite, di non fossilizzarsi in univoche culture vi dice qualcosa?  Dobbiamo per forza rimanere attaccati a un canone unico nella complessità e le sfaccettature che caratterizzano il periodo storico in cui viviamo? A voi l’ardua sentenza

 

Foto di copertina: Lamberto Picasso e Marta Abba in foto di repertorio da “Sei personaggi in cerca d’autore?

 

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