Stato degli studi sul culto Mata e Grifone- Resoconto delle race relations tra immigrati calabresi e afroamericani

RESOCONTO 

STATO DEGLI STUDI SUL CULTO“MATA E GRIFONE” 1 agosto 2185

1) Il ritmo ipnotico che in un crescendo vorticoso si sprigiona dai tamburi a tracolla di suonatori vestiti di bianco traccia una scia sonora per la danza scatenata di una regina di cartapesta bionda alta tre metri (Mata) e del suo consorte nero (Grifone), della stessa stazza. Nel frattempo, un “cavalluccio” anch’esso di cartapesta, cerca di intromettersi tra i due compiendo evoluzioni che mano mano si restringono .

2) In seguito agli scarsi risultati (la coppia non si lascia separare), il destriero desiste infine dall’impresa senza però rinunciare alla danza. Dietro a questa stramba testa di corteo segue uno stuolo di bambini festanti che urlano “I giganti! I giganti!”, “Evviva. Arrivaru i Giganti!” accodandosi ai 3 adulti –le gambe del re, della regina e del cavalluccio –e ai suonatori di tamburo. Tutti insieme percorrono in ordine sparso e di corsa le strade del paese un po’ sgarrupato (trattasi o di Seminara o di Palmi, entrambi centri del Reggino) mentre la gente si affaccia alle porte e ai balconi applaudendo.”

La descrizione di cui sopra si riferisce alle poche riprese di discreta qualità recuperate nei recenti scavi effettuati nel Museo Etnografico di Palmi (RC). Dei “Giganti” fisici non rimane traccia alcuna data l’alta deperibilità dei materiali di realizzazione (cartapesta, tessuti), tuttavia rimangono numerose tracce sia nelle fonti orali che scritte e telematiche (cfr. http://www.vacanzaincalabria.it/schede.asp?ID=417&liv=0&padre=0 che descrive la variante calabrese da distinguersi da quella di Messina). Per quanto riguarda il reperto tecnologico ritrovato, costituito da video e sonoro su supporto di pellicola Kodak, esso è databile attorno al 1965- 1975 dell’epoca comune ed è attribuibile a un membro della popolazione autoctona emigrato (probabilmente in Australia o in USA come deducibile dal tipo di attrezzature necessarie per effettuare le riprese e dalla scarsa reperibilità di tali dispositivi in ambiti famigliari sul suolo italiano ed europeo a quell’epoca). In quegli anni si registravano solo sporadici casi di emigrati australiani o statunitensi che ritornavano per l’estate al paese natio, talvolta dopo lunghi decenni di assenza, mentre tale fenomeno sarebbe diventato di massa solo a partire dalla fine degli anni 1980 fino a tutto il primo decennio del duemila. Che non si tratti di attrezzature professionali in dotazione ai canali televisivi o appartenenti a documentaristi residenti sul territorio lo si evince dalla qualità amatoriale delle riprese e dall’alto livello di pathos che traspare nel filmato, attribuibile a un eccesso di quel sentimento tipico delle popolazioni dell’Italia meridionale descritto col nome “familismo amorale” a metà degli anni 50 del ventesimo secolo dal luminare americano Edward Banfield. È chiaro che per continuare ad alimentare tale spirito tra i membri allontanatisi dal territorio natio e rassodarlo nei discendenti sorgesse l’esigenza di fornire testimonianze anche visive sull’estensione della famiglia, tentativo che traspare a tratti nel filmato nei momenti in cui la telecamera si sofferma con particolare accanimento su determinati soggetti alcuni sorridenti e ammiccanti, altri schivi e/o infastiditi ma che in ogni caso che si sforzano di dare segni di riconoscimento e di saluto. Pare che tra quei pochi che all’epoca ritornavano per l’estate vi fossero alcuni che ambivano costruire non solo un album di famiglia cinetico ma anche più sofisticate testimonianze di carattere etnologico da tramandare ai figli.

Il fatto che il supporto filmico con le riprese si trovasse accanto allo scrigno/forziere contenente missive scritte nell’arco di cinquanta anni e indirizzate a Mata e Grifone e che entrambe fossero collocate all’interno di una specie di “tabernacolo” ha suscitato non poche perplessità che hanno condotto i nostri studiosi a indagare due piste: 1) la collocazione all’interno del Museo Etnografico può far pensare che si tratti di materiali “scientificamente” raccolti da un proto-antropologo di quell’epoca che incuriosito dalla stranezza del “culto” si fosse sforzato di raccogliere materiali multimediali e li avesse conservati in un archivio solo casualmente baroccheggiante (un simile caso di travisamento delle strutture di conservazione è stato riscontrato anche in un ritrovamento di Timbuctu in connessione a materiali inerenti a uno dei molteplici “cargo cults” presenti in quella regione); 2) che il Museo stesso avesse la triplice funzione di luogo di esibizione, studio e venerazione e che la forma appunto “tabernacolare” del contenitore fosse intesa a sottolineare la preziosità degli “oggetti” custoditi e a creare uno spazio “sacro” per gli astanti.

Allo stato attuale della letteratura in merito al “Mata and Grifone cult” tra le fonti scritte non emerge nessun elemento significativo che possa giustificare l’inserimento di queste figure nell’olimpo delle divinità locali, costituito in maggior parte da madonne di vari tipi (della Lettera, dei Poveri, del Carmine, di Polsi, etc) e poi da vari santi, tra i più notabili nella zona San Rocco, San Fantino, San Cosma e Damiano, Sant’Elia etc.).   È difficile spiegare il fenomeno delle lettere a Mata e Grifone, se non interpretandolo come una richiesta di consiglio a una sorta di nume tutelare della emigrazione e forse della diversità (ma qui rischiamo di addentrarci in concetti sorti negli ultimi vent’anni del ventesimo secolo lasciandoci così adescare da anacronismi). Mata e Grifone, bionda lei nero lui, una coppia altamente eterogenea ma paradossalmente eletti a rappresentare l’origine del popolo calabro. Chissà che trovandosi a dover gestire rapporti con persone percepite fisicamente molto lontane da sé, specialmente in seguito alle forti pressioni dell’ambiente circostante, i calabresi della provincia di Reggio Calabria sparsi per il mondo non ricorressero a una memoria ancestrale, una sorta di archetipo junghiano che gli facesse da guida etica/ pratica nel dipanare la matassa?

Lo scrigno conteneva ben 73 missive ma per agevolarne l’analisi ne abbiamo scelte 7 che qui di seguito presentiamo e che hanno come fulcro i rapporti con i “niguri”. Le lettere sono state scritte nell’arco di 50 anni da un campione eterogeneo per età, sesso, scolarizzazione, status sociale ma omogeneo per luogo di provenienza delle missive che sono state tutte inviate dalla California. I lavori di decodifica ed analisi di questi testi sono ancora in corso e si prevede per questo progetto un periodo minimo di tre anni di lavoro a tempo pieno da parte di tre studiosi, per un costo totale di 3 milioni di sestollari.

 

 

 

Concord, California settembre 1995

Cari Mata e Grifone,

mi appello a voi perché mi sento una persona giusta e di buon cuore, ma che crede che ognuno deve stare al suo posto se no si creano squilibri e sconcezze perché quando le persone sono troppo diverse non si può trovare la via di mezzo e uno impone all’altro cosa fare. Lo so che voi siete una bianca e uno nero e quando ballate non vi lasciate separare dal cavalluccio e vi volete bene, ma siete l’eccezione e vi voglio spiegare un’ingiustizia che per me è così chiara che non so come la gente fa a non ribellarsi. E non lo dico per cattiveria: io che sono proprio bianca di pelle e ho gli occhi azzurri ho lottato con i miei per sposare la persona che amavo e che è brunettazzo, ma eravamo sempre della stessa razza, non eravamo così differenti come una bianca e un nero. Ce l’avete presente O.J. Simpson e la sua ex moglie Nicole Brown? Lui nero, famoso giocatore di football che poi si è messo a fare film e pubblicità ha sposato tanti anni fa una bella modella bionda Nicole Brown. All’inizio tutto bene poi lui era geloso come una bestia perché sii sentiva inferiore e la massacrava di botte. Lei l’ha divorziato e lui un giorno è entrato in casa e ha ammazzato lei e un amico che non c’entrava che era lì per caso perché era venuto a riportare una cosa che lei aveva dimenticato nel ristorante. Ora lui che è potente si approfitta del fatto che i neri sono stati sfruttati e ora cercano non solo giustizia ma anche di sopraffare chi li ha messi sotto. Sono ormai settimane che quando non ho niente da fare seguo il processo in televisione e mi arrabbio perché è così evidente che lui che ha i soldi ha preso gli avvocati più furbi, quel Johnny Cochran che pare nu diavolicchiu, sempre lui che parla e dice, scelgono tutti i giurati neri e trovano tutti i cavilli per scagionarlo. Approfittano del fatto che c’è stata in passato discriminazione per giustificare qualsiasi cosa facciano e ormai i bianchi non possono dire niente. Ma questa vi sembra giustizia? Ormai l’America è su una brutta china e ho paura che i miei figli e nipoti dovranno affrontare una società sempre più ingiusta. Cosa pensate voi di tutto questo?

Cordiali saluti

Domenica Lamantia

 

 

Vallejo, California, febbraio 1958

Cari Mata e Grifone,

non so che fare, mi ricordo che eravate uno bianco e una nera e per questo vi chiedo consiglio. Siamo qui in America da cinque anni, sono venuta che ero piccola, ho perfino la fotografia della mia prima bambola con passeggino che mi hanno regalato appena arrivata qui, per il mio nono compleanno.

Nella mia scuola ci sono ragazzi di tante razze diverse e io sono amica di tutte: di filippine, di bianche, di cinesi e anche di nere. Mi piace il fatto che sono piene di vita e mi piace assai la musica che suonano, che è piena di ritmo e dice cose vere. Mia cugina, di nascosto da suo padre, ha un boyfriend nero e così abbiamo scoperto la loro musica. L’ascolto alla radio, alla stazione KDIA mentre aiuto mia madre a preparare le lasagne e i ravioli per il ristorante e qualche volte lei si spazientisce e mi dice di spegnere questa musica di “niguri”. Qui tra i bianchi non siamo in molti che vanno a sentirli suonare nei loro locali, ma io e mio fratello, dopo che chiudiamo il ristorante qualche volta andiamo a sentirli suonare nei locali a San Francisco, tipo Purple Onion specialmente jazz e blues. Una volta siamo andati a un concerto all’Oakland Coliseum per sentire Aretha Franklin e Ray Charles e quando siamo entrati abbiamo visto che quelli che prendevano i biglietti si facevano i segni tra di loro per indicare che eravamo il settimo e l’ottava bianca entrati fino a quel momento in uno stadio che contiene tremila persone. A me i neri mi stanno simpatici e non mi hanno mai fatto niente di male. Mi piace come ballano e mi piace la loro musica. Infatti anch’io ho imparato a muovermi bene al ritmo della musica, quasi quanto loro. Peccato che i miei non mi mandano a ballare perché dicono che dobbiamo tornare in Italia e devo comportarmi come le ragazze calabresi, i loro genitori non le lasciano mai uscire da sole, figuriamoci a ballare!

Comunque io vi scrivo perché abbiamo fatto un’azione che mi disturba. Alcuni neri servicemen della base avevano cominciato ogni tanto a venire alla pizzeria e il problema è che se nel posto vengono troppi neri non vengono più i bianchi e dobbiamo trovare una soluzione. Il cugino di mio padre, quello che ci ha fatto chiamare in America e che è il padre della ragazza che ha il boyfriend nero, ha più esperienza di noi perché abita qua da più di ventanni e dice che ci dobbiamo mettere il peperoncino e così non tornano più. Mio fratello l’ha fatto ma il risultato è che è piaciuta molto e la sera dopo sono arrivati altri due tavoli di neri. Mia madre era tutta arrabbiata e ha pensato che invece della salsa di pomodoro sulla pizza si può mettere marmellata e vediamo come reagiscono stavolta. E infatti credo che hanno ricevuto il messaggio e da un po’ non viene nessun nero. Mia madre e mio fratello ridono quando raccontano questa cosa ma io invece sento che non è una buona azione ma non so cosa fare. Qui i calabresi i neri li chiamano “mulingiana” (melanzane), “tizzuni”, e quando non vogliamo farci capire “fratelli” ma a me pare brutto perché anche a noi gli americani ci disprezzano e ci chiamano Degos e Wops. Non posso difenderli perché se no i miei si arrabbiano ma non voglio neppure dare ragione ai miei quando fanno cose brutte. Cosa mi consigliate di fare?

 

Maria Centone

 

El Cerrito, California, 7 luglio 2010

Cari Mata e Grifone,

mi chiamo Steve Aniello e vi scrivo perché mi sono rimaste impresse nella memoria le immagini della sfilata dei Giganti che mio zio Dominic ci fece vedere al ritorno del suo viaggio a Palmi. Mi ricordo lo stupore al sentire il ritmo dei tamburi, la vostra danza scatenata e la gioia dei bambini che vi correvano dietro. Sembrava una musica africana non quelle cose sdolcinate, coi mandolini, che ci faceva sentire mio nonno. Ma quello che meravigliava di più era il fatto che uno di voi fosse nero e l’altra bianca. Mi chiedevo ma come fanno ad essere i nostri antenati? Noi calabresi non siamo forse bianchi? Poi mi veniva in mente un’altro fatto strabiliante che tantissime delle mie cugine, pur essendo calabresi, erano alte, bionde e avevano gli occhi azzuri mentre tanti altri cugini erano scuri, con delle belle labbra carnose e coi capelli crespi. Poi c’erano quelli di mezzo, alcuni che assomigliavano agli arabi (come me) e gli altri che assomigliavano ai greci. Anche noi a New York avevamo un santo nero, San Calogero e lo portavano in processione i siciliani per le strade di Little Italy. Nel 1971 il più ribelle tra i miei cugini “niguri”, per la disperazione della zia Assunta, si era fatto crescere una specie di pettinatura Afro che sembrava la testa di un leone e aveva cominciato ad indossare quelle camicie africane tutte colorate, le dashiki. La gente lo prendeva per portoricano o per nero e questo a mia zia dispiaceva assai mentre invece mio cugino era tutto contento e si era pure fatto la girlfriend nera. L’altra figlia, Angie, invece era una che cercava di passare per bianca, tutta ossigenata e mossettine, aveva perfino cercato di perdere l’accento del Bronx e fingeva di non riconoscere parole nostre. Si esprimeva con estrema finezza, non diceva mai “Capish?”, che invece rende assai bene quando il tuo interlocutore non è molto acuto. All’epoca anch’io vivevo a New York e quando mi hanno mandato a fare la guerra in Vietnam nel mio plotone c’erano dei ragazzi neri che erano veramente la fine del mondo. Non sai quante volte l’abbiamo scampata insieme. Poi c’è stato anche il periodo che per non sentire più niente, specialmente quando eravamo nei caccia a fare le incursioni e sganciare bombe, ci facevamo di droga, tanto l’eroina circolava a rubinetto. Quello è stato davvero brutto: insieme con Tyrone e William i miei commilitoni neri siamo stati sia vittime che carnefici. Uno ci ha lasciato la pelle ma l’altro è riuscito a farcela e quando siamo ritornati eravamo inseparabili. Quando al ritorno abbiamo incominciato un po’ a capire come stavano le cose insieme abbiamo pubblicamente lanciato contro il muro le nostre medaglie e abbiamo fatto parte di VVAW, Vietnam Veterans Against the War.

Poi ci siamo persi di vista, lui è tornato a scuola, ha fatto l’università e penso che abbia trovato posto nell’amministrazione pubblica io invece mi sono trasferito a San Francisco e ho continuato a lavorare con i Veterani del Vietnam contro la guerra. Ho sposato una donna cinese e poi ci siamo lasciati quando ho lasciato il partito. Ma quello che vi volevo dire è stato forse tutto invano? Tutti questi anni che abbiamo cercato di mettere insieme neri e bianchi e poi capita ancora oggi che a Oakland un ragazzo nero di 26 anni si possa ubriacare (come tutti) la notte di San Silvestro si sieda per terra ad aspettare la metropoliatana e un poliziotto bianco gli può tranquillamente sparare (mentre lui, sempre inerme, per terra lo scongiura di non sparare dicendo che ha i figli piccoli) con un sacco di persone come testimoni e perfino gente che lo filma! E poi, durante il processo non lo condannano neppure? Tutta la strada che abbiamo fatto insieme per niente? Siamo sempre a zero? Ma ogni tanto mi venite in mente voi due, regina bionda e re nero che ballate insieme per le strade di un villaggio calabrese e mi ritorna un briciolo di speranza. Scusate lo sfogo,

vostro

Steve Aniello

 

Los Angeles 16 luglio 2002

Cari Giganti,

mi chiamo Carmela e sto dettando questa lettera a mia figlia prima che perdo lucidità per la morfina contro il dolore che mi stanno dando in questa lunga agonia. Vi scrivo perché oggi è la festa del Carmine, il mio onomastico e mi sono ricordata di voi, che vi facevano ballare anche in quella occasione.

Vi voglio confidare una cosa che ho capito molto tardi, solo alla fine della mia vita, che è vero che tutti gli esseri umani siamo fratelli e sorelle e ci dobbiamo volere bene. Siamo tutti uguali anche se abbiamo il colore della pelle diversa, se abbiamo modi di fare diversi. Ve lo dico perché proprio in questi giorni ho conosciuto una persona dolcissima nera: si chiama Celeste e l’hanno mandata da me quelli di Hospice perché c’’era bisogno di una persona esperta che potesse farmi il bagno senza farmi male (sto morendo di cancro alla vescica e come mi toccano sento dolore). Celeste viene da una delle isole dei Caraibi non so quale, è grande e grossa ma è proprio la persona di cui c’era bisogno in questo momento. Mi muove con una delicatezza assoluta, non sento proprio niente quando mi lava lei, mentre se mi toccano gli altri mi viene da gridare. Sempre sorridente e gentile, con gli occhi che le luccicano di dolcezza. È un piacere vedere che non ha nessuna difficoltà a trattare con una come me che non capisce l’inglese, che è vecchia e malata e che è bianca. Non le passa nemmeno per l’anticamera del cervello che lei è così diversa da me. E pensare che fino a tre anni fa i neri li evitavo proprio, li vedevo cosí diversi da me che mi facevano sia paura che repulsione, avevo paura perfino di dargli la mano. La prima volta che ho stretto la mano a una persona nera è stato tre anni fa, a ottandue anni, per il funerale di mio marito: era venuta la collega di mia figlia a farci le condoglianze, e mi sono trovata davanti una mano nera, l’ho stretta, ed ero stupita che fosse proprio uguale alle altre. Mi ricordo poi di aver visto una certa sorpresa negli occhi delle altre vecchie cummari calabresi, loro non l’avevano mai fatto e pensavano che non lo avrebbero mai fatto. Ma la verità è che non è così e forse si potevano evitare tante cose brutte se queste cose si capivano prima.

Lo dico a voi perché da quando ero piccola non mi era mai andato giù il fatto che uno dei Giganti fosse nero, mi sembrava strano, non naturale. Che ci azzeccava un moro con una bella regina bionda? Lo stesso per le madonne nere. Me la sono sempre bevuta quello che dicevano i preti, cioè erano prima madonne bianche che sono state bruciate e per questo sono diventate nere. Poi un giorno le mie figlie hanno invitato una studiosa anziana, siciliana americana che studiava proprio le madonne nere e voleva farmi l’intervista perché con queste madonne ci ero cresciuta e sapevo tante cose delle feste, delle processioni. È stata lei a spiegarmi che le Madonne nere erano nere perché erano un ricordo della grande Dea originale dell’Africa, che le diverse popolazioni del mondo hanno portato con sé quando si sono spostate dall’Africa. Parlava anche di studi genetici, di uno che si chiamava Cavalli-Sforza. Io dicevo “Sí, sí”, ma mi sembrava una cosa troppo stramba, che non stava né in cielo né in terra. Ma può anche darsi che é vero. Non sappiamo tutto e a volte le cose che sembrano naturali non sempre lo sono. Ma sono contenta che prima di andarmene ho superato questa barriera (nella mia famiglia di queste cose si è discusso e si litigato per almeno quarant’anni, da quando abbiamo messo piede in America).

Vi sembrerà strano, Giganti, ma vi chiedo la Vostra Santa Benedizione

 

Vostra

 

Carmela Repaci

 

Orange County, gennaio 2010

Cari Giganti,

mi esercito a scrivervi questa lettera in italiano così ricevo anche credito per il corso Italiano 104 dell’Università di California Irvine. Mi chiamo Sean Carlo e come forse capite dal mio nome mio padre è scozzese e mia mamma è di origine italiana. A mia nonna piaceva un attore italiano di tanto tempo fa che si chiamava Giancarlo Giannini e quando mia madre le ha chiesto che nome italiano poteva seguire a Sean (pronunciato Shian) mia nonna le ha suggerito Carlo, così adesso ho un nome che nessun altro ha. I miei nonni di Calabria mi hanno parlato delle feste di Ferragosto e di voi e poi ho cercato in internet. Devo dire che mi sembrate fighi (così si traduce la parola “cool”, vero?), e vi ho scelto anche perché con questo report posso guadagnare dei punti per “etnicity” che qui all’università contano.

Qui al college sono in minoranza perché io non credo tanto a questa storia della discriminazione contro i neri. Secondo me quando una persona ha la volontà di lavorare va avanti, vedete quello che è successo per tante famiglie di migranti (mia madre adesso è presidentessa di una compagnia di assicurazioni sanitarie e i suoi genitori erano calabresi, mio padre dirige un’azienda di software e anche i suoi genitori erano poveri quando hanno emigrato dalla Scozia).

Però non mi piace quando la gente è trattata come schiavi. Quando su RAI International ho visto le scene di quello che è successo a Rosarno prima ho subito pensato “Adesso anche lì hanno i “race riots”. Poi il mio professore in una classe di “Business Administration” (sto finendo il mio B.A. Business Administration e poi voglio prendere il Master dalla Scuola di Business da Harvard) mi ha spiegato che gli africani si erano ribellati perché erano trattati come schiavi, ricevevano pochissimi soldi per il lavoro durissimo raccogliendo arance, dovevano dormire in fabbriche abbandonate poi erano sparati da persone della Ndrangheta. Questo non è giusto, ma forse anche i neri hanno distrutto troppo quando si sono arrabbiati.

Non so come spiegare. Ci sono dei neri che capiscono come funziona il business. Infatti guarda a queste star dell’hip hop che guadagnano milioni di dollari. Parlano nelle loro canzoni di come è la situazione nei ghetti e poi sono i ragazzi bianchi delle suburbia che comprano i loro CD. È geniale. Ma tanti altri neri non hanno iniziativa, a loro manca l’ambizione, aspettano il welfare. Penso che anche in Italia adesso avrete dei problemi con le questioni della razza.

Per rendere il conflitto meno pericoloso forse si può fare una campagna pubblicitaria. Ho pensato che poteva essere molto efficace disegnare un logo con “I Giganti”, Regina bianca e Re nero, un simbolo formidabile per avere ambizioni alte, e poi fare molti spot alla televisione e alla stampa che mostrano ‘role models’ (figure di riferimento?) per i neri e qualche pezzetto di discorso di Martin Luther King contro la violenza.

Cari Giganti vi ringrazio moltissimo per avermi ispirato e vi scriverò di nuovo per chiedervi l’autorizzazione a usare la vostra immagine se il progetto della campagna pubblicitaria diventa reale.

Distinti saluti

Sean Carlo Stewart

 

San Francisco, 6 gennaio 1970

Cari Giganti,

ormai mi sto quasi dimenticando come siete fatti, sono più di 17 anni che non vi vedo, ma ora stiamo per ritornare in Italia e quest’estate sarò felicissima di vedervi ballare. Ma mi ricordo sempre com’ero contenta quando, fino ai dieci anni vi seguivo di corsa con gli altri bambini di Seminara mentre vi facevano ballare. Poi sono diventata signorina e non lo potevo più fare, dovevo stare a casa o andare dalla “maistra” la sarta, per imparare a cucire e a ricamare così mi preparavo anche la biancheria per la dote. Poi quando avevo quasi tredici anni siamo emigrati in California e la mia vita è cambiata.Sono andata a scuola, ho fatto la graduation e perfino ho lavorato come segretaria a San Francisco per qualche mese. Poi ho incominciato a lavorare al ristorante dei miei e dopo qualche mese sono tornata in italia per sposarmi con un bravo ragazzo calabrese, Antonio, un bel ragazzo , che cantava con una voce bellissima ed era un gran lavoratore. Abbiamo avviato una pizzeria/ristorante tutto nostro e poi sono rimasta incinta di due gemelle. Dopo un anno che sono nate le bambine tutti i miei sono ritornati in Italia e io mi sentivo un poco abbandonata (non lo davo a vedere perché sono una persona molto orgogliosa e se la gente ti vede debole a volte ne approfitta o ti compiange e questo non mi piace). Per fortuna, qualcuno ha ascoltato le mie preghiere ed è arrivata un angelo ad assistermi. Era un angelo nero che si chiamava Mrs Eunice Williams, la signora che con suo marito è venuta ad abitare nella casa che diamo in affitto dietro casa nostra. È una persona eccezionale, non ha figli, quindi le ho chiesto se mi guardava le bambine quando dovevo andare al ristorante. Ha accettato con entusiasmo e sono stata davvero fortunata perché alle mie bambine gli vuole tanto bene e le tratta meglio che se fossero figlie sue. Una persona così dolce e sempre allegra io non l’avevo mai vista, sarà perché noi calabresi tendiamo ad avere un carattere duro e a essere pessimisti. Mrs. Williams per me è un po’ come una mamma, da lei sto imparando una nuova filosofia: che bisogna essere sempre positivi, che bisogna guardare il lato buono delle cose. Tanto se vedi tutto sempre nero non è che riesci a cambiare la situazione. Mrs Williams mi ha insegnato un proverbio: “If life hands you lemons, you make lemonade” (Se la vita ti porge limoni, tu fa’ la limonata”, forse non rende in italiano, ma per me il messaggio è chiarissimo. Ed è anche diverso da “bisogna rassegnarsi” perché quando fai la limonata almeno fai qualcosa di positivo). Mrs Williams ha una energia che non finisce più e mi racconta sempre cose della sua vita, di quando abitava nella Georgia con suo marito e le brutte cose che ha dovuto patire perché lì i neri sono spesso maltrattati dai bianchi e c’ è anche il Ku Klux Klan. Lei è anche una donna di fede, si sente da come parla, spesso fa riferimenti a cose che stanno scritte nella Bibbia e da lei sto imparando anche qualche cosa di religione, un po’ diverse da quello che sentivamo noi dal prete. Sono finiti qui in California perché suo marito faceva l’engineer, cioè il macchinista e ha trovato lavoro alla base militare, nei cantieri navali ad Hunters Point. Qui in questa zona sono venuti tanti neri dal Sud, quando hanno cominciato a costruire navi per la seconda guerra mondiale. Se metto il mio braccio accanto al suo siamo quasi uguali, perché anch’io sono molto scura. Ho anche i capelli crespi e le labbra carnose: ne prendo da mio padre e non da mia madre che invece è molto bianca (un po’ come voi due, Mata e Grifone). Quando crescevo in Calabria mi avevano già messo a “njuria” “Nigricedda” (ossia Negretta) ma a me questo non mi feriva e non mi dava complessi, erano loro che erano ignoranti. Infatti con tutti i cambiamenti che ci sono e i neri che qua in America difendono i loro diritti penso che in futuro non sarà tanto importante di che colore hai la pelle, e queste cose le insegno anche alle mie figlie. Allora, cari Giganti, non vedo l’ora che anche le mie figlie vi vedano ballare per le strade di Calabria. Ho raccontato di voi anche a Mrs Williams, ma lei potrà vedervi soltanto per fotografia.

Un caro saluto

Francis (Francesca) Jerace

 

Fairfield, 14 agosto 1985

Cari Giganti,

Vi scrivo perché mi è venuta la nostalgia del mio paese e delle mie “luvare”, cioè l’oliveto che dopo tante fatiche ero riuscito a comprarmi al mio paese. Certo che a stare dietro alla famiglia e ai figli si impazzisce. Io ero uno che era fatto per avere una vita tranquilla, ho incominciato a lavorare a 12 quando mio padre se n’è dovuto scappare per l’Argentina, mi sono sempre rotto la schiena lavorando, ma quando è finita la guerra qui da noi si stava male e abbiamo deciso che si poteva emigrare o in Argentina (dove c’era ancora mio padre) o in California (dove avevo un cugino). A me piace valutare bene le cose prima di lanciarmi, so che l’economia è la prima base, quindi sono andato a vedere prima in Argentina (un viaggio lungo e penoso in mare). Ma lì non è che si stesse tanto meglio che in Calabria, nel ranch di mio padre e di mia ‘zia’ avevano tante bestie di allevamento, si mangiava carne in abbondanza ma lo stesso dovevano faticare dall’alba alla sera per avere quel minimo indispensabile. Poi ho deciso di vedere come era la California. Mio cugino, quando era tornato al paese non si stancava di raccontare com’era facile fare soldi e fare la bella vita. Io so che è un po’ spaccone, quindi è meglio vedere con i propri occhi. Allora anche lì dopo, un lungo e duro viaggio, sono arrivato in California, e il terzo giorno mio cugino mi mette sopra un autobus e mi dice, “Ricordati dove siamo scesi ieri. È lì che ti hanno trovato da lavorare”. E mi lascia da solo. Vi potete immaginare, io senza una parola d’inglese, non sapevo dove scendere. Sono arrivato quasi al capolinea e poi mi sono ricordato di una collinetta che stava alle spalle dello stabilimento. Me la sono fatta a piedi in salita e discesa e sono arrivato con due ore di ritardo. Tutti i paesani che mi ridevano dietro, ma mi hanno accolto bene. La maggioranza erano siciliani e calabresi, quindi almeno ci capivamo. Poi quando ho capito che lì in California si poteva guadagnare un po’ ho fatto chiamare la mia famiglia e loro dopo un po’ hanno aperto un ristorante. Lì si che si guadagnava abbastanza e abbiamo fatto progetti di tornarcene in Calabria appena avevamo fatto abbastanza soldi.

Questo era il mio sogno e dopo quasi dieci anni ce l’abbiamo fatta. Di nuovo lungo viaggio (meno duro stavolta, in circostanze più di lusso, addirittura il transatlantico Cristoforo Colombo!). Ma poi come al solito, sballottato qua e là, dietro a quello che volevano i figli. “In Calabria non c’è niente da fare”, non si trovavano e così andiamo al nord, a Genova, a congelarci e a prenderci un po’ di fumi dallo stabilimento Sci di Cornigliano. Per fortuna dopo quattro anni di quel calvario, sono tornato in Calabria a Natale a visitare mia madre e al ritorno ho informato la famiglia che avevo comprato una partita di luvare, cioè un uliveto e che ci saremmo ritrasferiti lì. Poi sono successe un sacco di cose che non vi sto a raccontare e dopo dieci anni siamo tornati di nuovo in California.

In tutto questo, meno male che faccio la vita da pensionato, non devo lavorare. Posso dedicare tanto tempo all’orto che mi sono fatto nel giardino dietro casa. Ma certo che non è la stessa cosa che avere una partita di luvare, di lavorarci ma anche di godere il fresco e la pace. (Infatti la località dove si trovava il mio uliveto si chiamava “La Pace”—in verità forse perché era vicino al cimitero).

A Fairfield, in questa cittadina dove ci siamo trasferiti adesso, mi succede però un fatto curioso. Qui non sono abituati a vedere gente che cammina a piedi. Tutti in macchina anche se devono fare 100 metri. Io non ho mai preso la patente (a sessant’anni se l’è presa mia moglie) ma per tenermi in forma mi piace camminare nel vicinato, guardare le case, vedere cosa fanno le persone. Ultimamente mi capita che diverse volte mi ha fermato la polizia. Mi chiedono cosa faccio lì, e io cerco di rispondere, ma il mio inglese è scarso. Poi per farmeli amici, li chiamo anche “Buddy”, ma non sembra avere molto effetto. Comunque quando capiscono che non so bene l’inglese e gli faccio vedere la casa dove abito (una volta mi hanno accompagnato e sono andati via solo quando mia moglie ha aperto la porta), mi salutano e se ne vanno. Le mie figlie mi dicono che mi succede perché sono scuro e credono che sia un nero.

Certo in questo vicinato sono tutti americani, solo qualche volta si vede qualche greco, e a dire il vero sono il più scuro in giro, ma quello che mi dicono mi sembra esagerato. Come può essere che anche se uno fosse un nero non se ne può andare tranquillamente per i fatti suoi, a farsi una passeggiata nei dintorni di casa sua? E che parlano tanto a fare di libertà e democrazia?

I miei compari calabresi mi dicono che lo fanno per proteggere i residenti perché lí neri non ne abitano e quindi se sono in giro è perché vogliono rubare. A me questa spiegazione non mi convince, comunque credo lo stesso che non sia giusto.

Scusate la chiacchierata, il fatto è che non trovo nessuno con cui sfogarmi e voi due mi sembrate buoni ascoltatori (specialmente perché essendo di cartapesta fate fatica a rispondere).

Saluti californani di un vecchio calabrese

 

Giovanni Surace

 

 

Racconto di Pina Piccolo, 28 luglio 2010

 

Pubblicato per la prima volta ne El Ghibli 2012

 

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